di Angelo Petracci
Nel mondo del vino italiano esiste un avanti Tachis e un dopo Tachis.
Proviamo a pensare a quale sarebbe oggi l’immagine del vino italiano nel vino nel mondo senza la ribalta prodotta da etichette quali il Sassicaia, il Tignanello, il Solaia, il Cervaro della Sala, il San Leonardo, il Sammarco, il Campora, il Saffredi, il Turriga e il Terre Brune.
È unanimemente riconosciuto come il padre del rinascimento del vino italiano, che ha portato il nostro paese nel gotha della produzione mondiale di qualità, per l’innovazione generata dalle sue idee e dalla sua preparazione, figlia anche della collaborazione e degli studi con Emile Peynaud, enologo bordolese e capostipite dell’enologia moderna.
Prima di Tachis, parliamo degli inizi degli anni 60, l’enologo in Italia era una sorta di curatore fallimentare dell’uva portata in cantina: doveva avere competenze di chimica per provare a sistemare uve di qualità scadente od ordinaria. Non c’era spazio per fare altro. Oggi, grazie alla sua esperienza, l’enologo aiuta nella conduzione del vigneto e opera in cantina soprattutto con interventi fisici: scegliendo le temperature delle fermentazioni, gestendo la malolattica, i legni, la loro pulizia e i tempi da utilizzare. Una rivoluzione copernicana rispetto al dopoguerra.
“Il sangiovese ha sempre bisogno di un amante” può ben rappresentare la sintesi del suo pensiero: dobbiamo realizzare vini identitari, legati alla tradizione italiana ma si deve avere la consapevolezza dei loro pregi e dei loro limiti. Per molti in questo modo è stata aperta una breccia troppo grande all’ingresso dei vitigni internazionali che hanno “meticciato” il vigneto italiano ma è una critica al dito e non alla luna che indica: bisogna studiare, avere chiare le potenzialità di ogni vitigno, di ogni territorio e di ogni sottosuolo. Senza sudditanza nei confronti della tradizione, senza la pigrizia pratica del “si è sempre fatto così”, senza l’esaltazione acritica dell’artigianalità. E il fatto che alcune sue etichette iconiche siano il risultato di tagli con vitigni bordolesi e altre di monovitigni autoctoni dimostra come il suo metodo di lavoro fosse legato alla profonda conoscenza dei potenziali che in ogni luogo aveva a disposizione.
Un aneddoto personale che racconta la sua proverbiale semplicità e il non prendersi sul serio, si definiva infatti un mescolavini, è legato ad una degustazione tenuta all’inizio degli anni 2000 presso la sede Ais di Roma dell’hotel Hilton. Un partecipante gli chiese quale fosse il miglior abbinamento con il vino che stava raccontando. Tutti gli astanti seduti nella platea presero all’unisono la penna pronti ad appuntare l’abbinamento che stava per proporre. “Mescolato con un poco di aranciata fresca, d’estate viene fuori una bevanda molto dissetante” rispose, suscitando l’ilarità e l’applauso del pubblico. L’enologo più famoso d’Italia si prendeva molto meno sul serio di quanto non facessimo noi neodiplomati AIS.
Sapere di vino edito dalla Mondadori nel 2011 rappresenta la sua autobiografia e permette di conoscere le tappe fondamentali della sua formazione e della sua attività lavorativa.