di Stefano Sarasso
Si sente parlare di loro a proposito del vino, ma in realtà si nascondono in tanti altri alimenti di uso comune. Sono i solfiti, spesso designati semplicemente come SO2 ovvero anidride solforosa o diossido di zolfo, additivi enologici che possono essere utilizzati ad ogni stadio della produzione del vino per le loro proprietà antisettiche e antiossidanti. Come rovescio della medaglia è noto che l’impiego di queste sostanze comporta dei rischi per la salute e deve avvenire nel rispetto dei limiti fissati da una normativa i cui margini più severi sono quelli stabiliti per la viticoltura biologica come da Regolamento (UE) n203/2012. Ma quando nasce questa pratica che ancora oggi fatica a trovare metodi alternativi? Curiosamente, a differenza di quello che spesso si narra, l’utilizzo dello zolfo per la conservazione del vino sembra essere piuttosto recente.
Studi sulle origini della viticoltura effettuati dall’Istituto di Archeologia Biomolecolare dell’Università della Pennsylvania su anfore di varie epoche non hanno rilevato infatti una presenza di zolfo così elevata da essere riconducibile all’uso intenzionale dell’uomo. Anche la ricerca storica ha chiarito come i Romani usassero altri additivi come estratti vegetali, pece e resina per correggere o migliorare un vino. Columella nel De Re Rustica anticipa Luigi Veronelli con queste parole: ‘’Il vino migliore è quello che deve il suo piacere alle sue naturali qualità, nulla deve essere aggiunto che ne oscuri il sapore naturale’’. L’uso dello zolfo si affianca al vino a partire dal Medio Evo principalmente per sterilizzare le botti e non senza limitazioni e persino divieti come stabilito nella città di Colonia nel quindicesimo secolo.
Sotto l’Impero germanico viene emanata una legge che restringe la pratica della combustione dello zolfo nelle botti ad una dose valutata oggi dagli esperti come davvero modica se riferita agli standard moderni. Saranno i mercanti fiamminghi verso la fine del diciottesimo secolo i primi a bruciare stoppini di zolfo per proteggere e stabilizzare il vino che trasportavano nelle botti, mentre bisognerà attendere la fine del diciannovesimo secolo per assistere all’apparizione sulla scena della industria chimica dello zolfo e dei suoi derivati.
Tornando ai nostri tempi, dal 1988 negli Usa e dal 2005 nella UE il vino contenente più di 10 mg/l deve indicare ‘’contiene solfiti’’ sull’etichetta. Scelta discutibile dato che la fermentazione alcolica produce già spontaneamente solfiti, da 10 a 30mg/l a seconda della famiglia di lieviti impiegata. La legge quindi non consente di distinguere i reali quantitativi di solforosa impiegati dai produttori e mentre la viticoltura alternativa ed ecologica ricorre per lo più a piccole dosi rivolte alla sola fase di imbottigliamento in molti casi l’aggiunta può avvicinarsi ai limiti massimi stabiliti dalla normativa UE. In chiusura un avvertimento del movimento Tripla A su alcuni vini ‘’without sulfites’’: sono prodotti di norma super industriali che già affollano molti supermercati americani in cui, per sopperire alla mancanza di solfiti, si ricorre a pastorizzazione e ad aggiunte massicce di acido ascorbico e tannini.