di Angelo Petracci
Alberto Grandi è professore associato di Storia del cibo all’Università di Parma ed è salito agli onori della cronaca per avere pubblicato “La cucina italiana non esiste” dove ha saputo dimostrare come le osannate tradizioni culinarie, perno della nostra identità nazionale, non corrispondono alla realtà storica ma sono soltanto il frutto di recentissime operazioni di marketing commerciale.
Non si tratta di un testo che non riconosce il valore attuale dei prodotti e della cucina italiana ma di una serie di analisi che dimostrano come le tradizioni non siano centenarie quanto recentissime. L’eccellenza attuale che conosciamo oggi non è mai esistita nel passato. Chi sostiene il contrario costruisce una narrazione di un passato fascinoso ma non reale. La tradizione della cucina italiana affonda le sue radici nel passato di un paese povero, con una cucina non di alto livello ma domestica e nessuno nel passato mangiava le ricette definite oggi come tradizionali. Si mangiava poco, male e in maniera monotona. Ma allora la tradizione che tutti i ristoranti propongono nei loro piatti a quanto tempo fa risale? Al massimo a 50 anni fa. Lo spartiacque è costituito dal secondo dopoguerra a partire dal quale l’Italia ha conosciuto un periodo di crescita economica che la ha portata a diventare un paese ricco e con questa ricchezza è migliorata la cucina perché con la crescita dell’industria alimentare è aumentata anche la disponibilità dei prodotti.
Una tesi solo apparentemente provocatoria, ancorata invece ad un’evidenza storica non confutabile. Non si tratta di accusare il libro di essere un elemento che rischia rovinare l’immagine della cucina italiana, creando le premesse per un danno economico. Il testo invece è illuminante per riflettere in modo colto e consapevole sulle ragioni che sono dietro il successo mondiale dei prodotti made in Italy.
Il capitolo più rilevante è certamente il numero 10 dove si analizza come il florilegio di denominazioni di origine che oggi identificano il cibo italiano sia stata la necessaria conseguenza della scelta di un modello di sviluppo economico scelto dall’Italia all’indomani della crisi economica di fine anni 60. La necessaria ridefinizione delle strategie di politica industriale definì una direzione incentrata sulla piccola impresa, sui distretti artigianali, sull’imprenditoria privata e quindi anche sulla valorizzazione del made in Italy.
Grandi e Soffiati non nascondono la loro preoccupazione per un processo di deindustrializzazione del paese ormai costante da diversi decenni che non può essere compensata dalla sola ristorazione e dai servizi per il turismo, che spesso non ha bisogno di personale qualificato e che presenta oggi ampi margini di evasione fiscale che fa in modo che la ricchezza prodotta non ricada a favore della collettività.
Ma tali constatazioni peccano di una lente di osservazione della realtà economica troppo legata al Novecento, che considera il cibo solo nella sua dimensione commerciale non tenendo conto che le zone di produzione hanno creato dei distretti industriali e delle filiere analoghi a quelli dell’industria fordista oggi in crisi. Gli stabilimenti della Nutella o del Parmigiano Reggiano sono poli ad alta tecnologia, che necessitano di personale altamente qualificato. E che Nisida è un’isola che non si è ancora ripresa dalla crisi del suo distretto siderurgico mentre i cittadini di Capri sono diventati ricchi con il turismo.