di Angelo Petracci
La figura di Michel Rolland è divisiva.
Da un lato il mondo degli addetti ai lavori lo conosce come uno degli enologi più importanti nel panorama mondiale per la fama e la numerosità delle aziende di cui è consulente.
Da un altro lato il grande pubblico lo conosce con l’immagine veicolata dal film del 2004 di Jonathan Nossiter “Mondo Vino”, nel quale il regista ne offre un profilo di persona presuntuosa e con un ego ipertrofico.
Per confutare questa immagine Michel Rolland ha scritto la sua autobiografia “Il guru del vino” ma nonostante l’intento, questa indole caratteriale si palesa in tutta la prosa del libro e trova la sua apoteosi nel capitolo dedicato al regista, nel quale con la stessa arroganza e protervia che sostiene di non avere, lo mette alla berlina, dileggiandone l’attività lavorativa. Ma la simpatia umana di un enologo non incide sulla qualità dei vini prodotti e con l’eccezione del capitolo inutilmente caustico contro Nossiter, il libro offre dei contenuti di grande interesse.
Nei vari capitoli descrive la sua storia e la sua filosofia di lavoro. Il figlio di una famiglia modesta, viticoltrice di Bordeaux, che non si impegna più di tanto negli studi, visto che il destino familiare sarà comunque quello di continuare l’attività dei genitori. Diventa poi enologo, seguendo i corsi di Emile Peynaud, un lavoro che però non godeva nel passato di alcun prestigio sociale ed accademico.
L’oggetto della riflessione è sempre lo stesso: vino globalizzato contro vino di territorio. Rolland è ritenuto il simbolo di una produzione omologata, dove gli enologi, a qualunque latitudine lavorino, adottano sempre le stesse metodologie di lavoro e producono per forza di cose vini tutti uguali.
Per l’autore non è stato globalizzato il gusto del vino: è stata globalizzata la perizia enologica, si vinifica senza gli errori e le grossolanità del passato. La microssigenazione e i legni piccoli non sono occhiolini strizzati al gusto facile ed immediato: sono strumenti per creare vini piacevoli, che devono essere in primo luogo venduti. Solo la comunicazione, dice sempre Rolland, ha bisogno di vini come simboli politici e morali.
E ancora: “Il terroir, i poeti viticoltori, l’omologazione dei vini sono solo un mucchio di idiozie!” I vini celebrati come di terroir sono spesso mediocri, con difetti palesi e un enologo è pagato per combattere tale mediocrità. Il rimpianto gusto del passato è una finzione retorica: ci si preoccupava della produzione e mai della qualità e si ripetevano sempre gli stessi gesti, senza conoscenze per adeguarli all’andamento climatico e all’uva raccolta. Gli enologi quindi non hanno omologato ma hanno dischiuso uno spiraglio di modernità.
Di buon interesse è anche il capitolo in cui parla di Robert Parker, definendolo una miscela di sensibilità, intelligenza acuta e gran memoria e che le critiche che ha subito sono figlie di un successo che ha infastidito l’allora celebrata critica inglese, cerimoniosa e verbosa, persa in inutili litanie incapaci di spiegare con facilità la qualità del vino ai non addetti ai lavori. Entrambi sono considerati coloro che hanno ucciso il vino francese, globalizzato il gusto mondiale, il perno di un sistema che influenza la vinificazione dei grandi vini per creare vini compiacenti, opulenti, dolciastri, ultra concentrati e muscolosi. E invece per l’autore sono soltanto vini ben fatti, senza difetti che ne coprano le peculiarità territoriali.
“Non cerchiamo ragionamenti per impedirci di provare piacere” suggerisce, prendendo a prestito una frase di Molière.
Comunque la si pensi, un’accusa stimolante nei confronti di un passato che produceva casualmente quei vini di qualità che vengono superficialmente rimpianti da molti ma come tutte le invettive priva di quelle sfumature per comprendere anche le ragioni emozionali di chi celebra il terroir come simbolo di un approccio al vino che non sia solo accademia e tecnologia.