Un viaggio di Piervincenzo Parisi (a cura di Sergio Aricò)
Una delle regole auree per divenire un bravo Sommelier è senza dubbio quella di conoscere, non solo attraverso lo studio dei manuali, ma anche e soprattutto dal vivo i territori che ospitano la coltivazione della vite recandosi presso le aziende produttrici e approfondendo vis-à-vis i diversi step che portano alla realizzazione del vino. Va da sé che qualunque viaggio intrapreso da noi wine lovers diventa la ghiotta occasione per aggiungere all’itinerario programmato una o più visite in cantina.
La destinazione da me prescelta è stata la catena montuosa delle Dolomiti altoatesine e quindi tra un trekking e l’altro non potevo che approfondire il comparto vitivinicolo dell’Alto Adige tra i più floridi del nostro “Bel Paese”. Lungo l’autostrada, nel tragitto tra Roma e Bolzano, ripasso vitigni e denominazioni fino raggiungere il fiume Adige dove le colline lasciano rapidamente spazio alle gloriose vette con impervi pendii. Superata la Piana Rotaliana oltrepassiamo il Trentino fino alla valle Isarco in Alto Adige dove si snoda la celebre Strada del Vino, patria di aziende di fama internazionale. Decido, quindi, di fermarmi in un “maso” (tipica masseria in zona alpina orientale) precisamente a Corona, frazione di Cortaccia sempre sulla Strada del Vino, situata su un altipiano a circa 900 metri sul livello del mare, quindi un po’ più sopra di quest’ultima. Da qui si gode di un panorama straordinario sulla valle dell’Adige; raggiungo, quindi, Termeno, piccolo borgo che si sviluppa ordinato attorno a un campanile, una piazza, vigneti, cantine che arrivano letteralmente fino al centro del paese e vari locali: da queste parti bere e mangiare bene risulta la regola e non l’eccezione. Qui si rivendica la paternità del Traminer aromatico, vitigno che avrebbe preso il nome proprio da questo paese, prima di espandersi ben al di fuori dei confini regionali. Per la cronaca ho trascorso una piacevole pausa pranzo da “Aroma”, cocktail bar con buona cucina. Prima di proseguire con il racconto, vi suggerisco di disattivare le varie app sul vostro smartphone restando sulle strade “principali” evitando di seguire ad ogni costo quelle indicate dal navigatore che a queste latitudini talvolta fa le bizze. Dopo cena, Guida Vitae in una mano, inizio a selezionare i produttori e a mandare mail per organizzare le visite.
Altro prezioso suggerimento: organizzatevi per tempo e non riducetevi all’ultimo momento come il sottoscritto dato l’elevato numero di prenotazioni. La sorte è dalla mia parte e riesco comunque a ottenere alcune disponibilità. Il giorno successivo esordisco con Tiefenbrunner in località Niclara. L’azienda si trova all’interno di Castel Turmhof, un’antica fortezza con oltre 800 anni di storia in cui si sono stratificate nel tempo le nuove costruzioni necessarie a portare avanti il lavoro in cantina.
Ad accoglierci c’è Robert, il quale mi racconta anzitutto un po’ di storia: “Giusto per darvi un po’ di contesto” – sostiene -. Qualora volessi sapere di più riguardo all’architettura e all’arte che ci circonda, è possibile prenotare un’apposita visita guidata. Per il momento preferisco focalizzarmi sul vino. Siamo nel podere Linticlar, oggi meglio noto come Schlosskellerei Turmhof. La famiglia Tiefenbrunner possiede 25 ettari di vigneti più svariate decine di conferitori; caratteristica, quest’ultima, comune alla stragrande maggioranza dei produttori altoatesini. Le etichette sono numerose (ne ho contate almeno 28) e la produzione, guidata dall’enologo Stephen Rohregger, si articola in quattro linee commerciali. In primis la “Merus”, caratterizzata da monovitigno con due eccezioni: un blend bianco (müller thurgau – sauvignon blanc) e uno rosso (cabernet sauvignon – merlot). Le fermentazioni avvengono solo in cemento e acciaio per vini imbottigliati giovani.
L’idea è quella di far spiccare il carattere del vitigno e la sua interazione con il terroir della Bassa Atesina. A seguire c’è la selezione “Turmhof” dove la fase post fermentativa si completa con affinamento sulle fecce fini per alcuni mesi per poi maturare in botti di legno di varia tipologia calibrate a seconda del vitigno utilizzato. La linea “Linticlarus” comprende invece tre riserve: pinot nero, Lagrein, e un assemblaggio Cabernet-Merlot in parti uguali con affinamento obbligatorio in botti piccole di rovere.
Segue, infine, la punta di diamante dell’intera gamma, la selezione “Vigna”. Come dice la parola stessa, i vini di questa linea utilizzano esclusivamente uve provenienti da specifici appezzamenti su territori rivelatisi particolarmente vocati, il cui nome compare fiero in etichetta. Ciascuno di essi vanta diversi riconoscimenti e in particolare il Sauvignon Blanc “Vigna Rachtl”. Il giro in vigna è in realtà una breve salita a piedi verso il loro miglior cru di Chardonnay, che si trova giusto alle spalle del castello. Da qui la vista è da brividi e si sente solo il rumore di un ruscello che sgorga dalle montagne retrostanti scorrendo più a valle attraverso la tenuta. Robert ci spiega che dal corso d’acqua viene ricavata gran parte dell’energia necessaria allo svolgimento delle attività produttive. Proseguiamo la visita tra la barricaia, i magazzini dove vengono stoccate circa un milione di bottiglie annue e un locale di fermentazione in cui sono collocate enormi vasche in cemento.
Degna conclusione si è rivelata la degustazione svolta nel suggestivo bistrò realizzato all’interno del cortile della fortezza. Cullato dal refrigerio del parco circostante e dagli elementi sonori della natura, inizio l’assaggio di due Chardonnay e due Sauvignon provenienti dalle linee “Merus” e “Turmhof”. L’idea dell’enologo, a mio giudizio, è quella di sottolineare come le moderne pratiche in cantina possano influire sul risultato finale in bottiglia seguendo un percorso estremamente didattico che ho apprezzato. Le annate sono 2022 per i “Merus” e 2021 per i “Turmhof”. Entrambi gli Chardonnay hanno un vivo colore giallo paglierino con riflessi velatamente dorati che emergono soprattutto nel “Turmhof”. I sentori di frutta a polpa gialla e mela del “Merus” virano in una veste più matura nel secondo, in cui le note terziare del legno la fanno un po’ da padrone. Nei Sauvignon, le nuance di matrice tropicale sono fresche e avvolgenti nel “Merus” mentre nel “Turmhof” vengono fuori profumi terziari non invadenti che ho, altresì, ritrovato all’assaggio complesso ed equilibrato. Per chiudere ci viene offerta la possibilità di scegliere una Riserva. Animato dal mio solito spirito contraddittorio, sono tentato di assaggiare un Lagrein ma il mio istinto viene soffocato sul nascere da un coro di Pinot Nero. Come dire Ubi maior… Il “Linticlarus Pinot Noir Riserva” annata 2020 viene realizzato con tecniche che si rifanno alla cosiddetta viticoltura eroica dove la trama argillosa e sabbiosa del suolo poggia sulla tipica roccia dolomitica. Parte delle uve viene vinificata intera, raspi compresi, per recuperare un po’ più di tannino. Affina un anno in barrique (40% di primo passaggio) e altri sei mesi in botte grande di rovere. L’impeccabile Robert anticipa la mia domanda spiegando come l’esposizione a ovest dei vigneti favorisca la giusta maturazione del delicato pinot nero, donando preziose ore di luce fino al tramonto. Al naso delicati frutti a bacca rossa si fondono sapientemente a spezie dolci e l’apporto del legno non risulta invadente. Sorso lungo ed estrema bevibilità.
Il mattino seguente, il navigatore è già impostato in direzione Alois Lageder. L’azienda ha sede a Magré lungo la Strada del Vino. Non avendo prenotato una visita guidata, mi accomodo in sala per una degustazione di sei vini. Come accompagnamento, se gradite, vengono servite olive e Schüttelbrot, tipico e croccante pane di segale, entrambi di produzione propria. Viene, quindi, fornito il catalogo completo dei vini in modo da poter selezionare il prodotto da degustare. Personalmente mi sono orientato su vini frutto di vitigni autoctoni che rappresentano quanto più fedelmente il terroir. La filosofia aziendale sposa prevalentemente il sistema produttivo biologico e biodinamico; quest’ultimo rappresenta il loro cavallo di battaglia. Gran parte delle etichette hanno, ovviamente, la certificazione Demeter mentre altre sono certificate Bio secondo il quadro legislativo di riferimento. A partire dal 2019 le fasi fermentative sono spontanee e non indotte. Ci sono 22 etichette in lista denominate “Classici”, “Composizioni” e “Capolavori”. È evidente l’intento di classificarle per livello qualitativo tant’è che la linea base “Classici” è prodotta principalmente con uve conferite. Da questa scelgo un “Müller Thurgau Valle Isarco 2022”. La sommelier servendolo mi spiega come il caldo estremo del 2022 sia stato una spada di Damocle per questo tipo di vitigno (e non solo per lui). Il vino perde un po’ in freschezza, ma compensa con la sapidità. Proseguo il percorso degustativo con la collezione “Composizioni” da cui, restando in Valle Isarco, scelgo il “Surmont Riesling 2021” caratterizzato da note floreali e minerali. Procedo con l’immancabile Gewürztraminer, etichetta “Am Sand 2022”. È il primo biodinamico della sequenza. L’intento del produttore è di ottenere un vino di fluida bevibilità e allo stesso tempo con un buon potenziale d’invecchiamento. In successione assaggio due annate di Moscato giallo a distanza di dieci anni l’una dall’altra (2022 vs 2012).
La sommelier in sala m’illustra il processo di vinificazione totalmente in acciaio e la collocazione dei vigneti sul lago di Caldaro a circa 300 m di quota. Le note aromatiche varietali tipiche del vitigno dopo dieci anni in bottiglia si trasformano in frutta candita e intriganti rivoli balsamici. È il momento di procedere con la linea “Capolavori”, da cui seleziono “Römigberg Schiava 2021” e “Lindenburf Lagrein 2020”. Il primo, 100% Schiava del Lago di Caldaro, proveniente da vigne che hanno più di settant’anni e cloni piuttosto vetusti, mi viene servito freddo come se fosse un bianco. Essendo poco tannico e mancando di acidità, le basse temperature ne esaltano la bevibilità. Il Lagrein si colloca, invece, visivamente e organoletticamente all’esatto opposto. Intenso e carico nel colore e dall’elevata acidità, proviene da vigneti situati nella zona bolzanese particolarmente vocata e posta alla confluenza del fiume Isarco e del torrente Talvera, ciascuno dei quali apporta il suo contributo di mineralità. Anche qui le viti sono a pergola per contrastare la calura della valle di Bolzano.
Lasciando Magrè mi accingo a oltrepassare l’Adige per scoprire perché su quei pendii che dominano l’orizzonte cresca il pinot nero migliore d’Italia. Proverà a spiegarmelo Franz Haas che si colloca per molti aspetti agli antipodi rispetto ad Alois Lageder. Se quest’ultimo è paladino del biodinamico, il primo sceglie appositamente di non prendere alcuna certificazione per non targettizzare la clientela. Mentre l’uno fa pascolare liberamente i buoi tra i filari e ritaglia spazi tra le vigne per creare orti che aumentino la biodiversità, l’altro punta su altissime densità d’impianto scavando un tunnel nella montagna dando vita a una scenografica sala di stoccaggio, soluzione che meritevolmente non va a intaccare il fianco di un pendio che non merita sfregi.
Proprio alla fine di questo tunnel, una grande vetrata lascia vedere il porfido rosso della roccia con i suoi substrati vulcanici che contribuiscono a fare la fortuna del pinot nero della Côte-d’Or italiana. La guida Filippo esordisce presentando tre bottiglie della serie “Manna”: una ’99 con tappo di sughero e due 2007, di cui una con tappo a vite e l’altra tradizionale.
Osservando le bottiglie in controluce, m’invita a trovare le differenze. Le due bottiglie in sughero hanno chiaramente livelli più bassi, ma non è (solo) questo che gli preme farmi notare. Il vino contenuto nella 2007 ha un colore diverso rispetto alle altre due, facendo sospettare un’ossidazione. Ci garantisce che entrambi i sugheri siano di pari (ottima) qualità, ma è evidente – prosegue -, come esso sia un materiale che introduce disomogeneità nella produzione. A tal proposito, Franz Haas ha iniziato a sperimentare con le chiusure alternative nel ’96 e dopo dieci anni di tentativi, il tappo a vite viene utilizzato su tutto l’assortimento della cantina anche per le riserve di rosso più costose e votate all’invecchiamento. Tale tipologia di chiusura – dichiara Filippo – dispone di membrane che consentono lo scambio d’aria, ed è addirittura possibile decidere il grado di permeabilità tappo per tappo, quindi vino per vino. La domanda che sorge spontanea è: “Perché non lo applicano tutti?” Probabilmente per ragioni di marketing – spiega – visto che è ancora difficile far passare il messaggio che un vino di qualità possa essere chiuso con un turacciolo in sughero; inoltre, i costi di adeguamento della linea d’imbottigliamento non sono del tutto trascurabili.
Franz Haas non è il solo a credere fortemente in questa scommessa. Sotto questo aspetto è stata addirittura creata un’associazione denominata “Gli svitati” con altri quattro produttori: il pioniere Jermann, Graziano Prà, Pojer e Sandri e Massa convinti all’unisono che sia la chiusura del futuro. Sempre alla ricerca del vino perfetto, l’identità di Franz Haas è inoltre legata a doppio filo con quella di Riccardo Schweizer, artista Trentino forse troppo poco conosciuto in Italia che disegnerà le etichette per la cantina così come la barricaia, ancora non completata di cui l’azienda fa ampissimo uso, impiegando le botti molto a lungo, fino a sei anni. Vengono usate solo tostature leggere e nell’assemblaggio si pone particolare attenzione a smussare i risultati di quelle di primo passaggio per non rendere il legno troppo invadente. Mi accomodo per la degustazione. Come tutti i produttori altoatesini, tantissime sono le etichette in catalogo. Qui non viene fatta però alcuna distinzione per linee di prodotto. Anche per i pinot noir, che sono tre, si tiene a specificare che nessuno debba essere considerato come un vino base. Iniziamo il giro di riscaldamento con due grandi classici del nord-est: Pinot Grigio e Moscato Giallo, per poi affrontare subito un pezzo grosso: il già citato “Manna”, la referenza più apprezzata e nota fra i bianchi della cantina: trattasi di un apparentemente audace blend di cinque uve aromatiche e semi-aromatiche: Riesling, Chardonnay, Gewürztraminer, Kerner e Sauvignon.
La messa appunto della “ricetta” ha richiesto sei anni, tutto sommato neanche troppi se si pensa alla complessità di un tale assemblaggio. Un vino che ho trovato estremamente didattico, per la sua capacità di cambiare gradualmente nel bicchiere a mano a mano che la temperatura aumentava. Alla prima olfazione Riesling e Sauvignon prevalgono per poi degradare su sentori che a fasi alterne ricordano le note del Kerner e del Gewürztraminer. Anche in bocca spicca inizialmente l’acidità del Riesling che poi lascia spazio a una maggiore rotondità dello Chardonnay.
È dunque l’ora di sua maestà il Pinot Nero che da Franz Haas si vinifica in tre versioni che differiscono principalmente per il periodo di affinamento in bottiglia. Per lo “Schweizer” dura circa un anno. Il “Ponkler” è vinificato con uve selezionate provenienti da un unico vigneto a 750 metri di quota, e affina per almeno dodici mesi. La terza versione è il primo nato, mix di uve provenienti da circa cinquanta vigneti, trascorre in bottiglia un po’ meno di un anno prima di essere messo in commercio e non ha una specifica nomenclatura in etichetta.
Procediamo con l’“Istante”, una sorta di rivisitazione del taglio bordolese in cui i due Cabernet sono assemblati con Merlot e ben il 40% di Petit Verdot, vitigni ben adattatisi alle zone più calde e prossime al fondovalle. Decisamente più succoso e concentrato del precedente risulta un prodotto in erba in cui l’acidità è ancora un po’ scontrosa. La giornata volge al suo epilogo con un ultimo assaggio: il “Moscato Rosa”, di cui è uno dei pochi produttori rimasti nell’hinterland. Le uve vengono raccolte al massimo della maturazione e vinificate con una breve macerazione per evitare l’estrazione di tannini troppo astringenti. Al raggiungimento delle caratteristiche desiderate, la fermentazione viene interrotta con l’ausilio del freddo per conservare il voluto grado zuccherino. Essendo un vino da dessert può essere accompagnato per esempio con torte secche o crostate ai frutti di bosco.
Chiudendo la parentesi (per usare un eufemismo) legata al vino ecco alcuni consigli utili per la vostra permanenza in Alto Adige: se siete runner non dovete assolutamente rinunciare a una corsetta attraverso la meravigliosa Vallunga; andateci molto presto, quando tutto ciò che dovrete schivare saranno le mucche al pascolo e non le mandrie di turisti. Tra i tanti luoghi da visitare evidenzio i giardini di Castel Trauttmansdorff, Castel Tirolo, Museo archeologico dell’Alto Adige, i laghi di Rèsia e Carezza e la zona dell’Alpe di Siusi solo per citarne alcuni. Per gli amanti della buona tavola ci sono i tipici canederli in tutte le salse. Ho trovato squisiti quelli al formaggio conditi semplicemente con una cremosa mantecatura al parmigiano oppure gli Schlutzfrapfen, grossi ravioli ripieni di spinaci. Altri piatti tipici sono le tagliatelle ai finferli, Strudel di mele, zuppa d’orzo, gulasch, speck e formaggio, magari accompagnati da pane nero al finocchio o uova: il tutto rigorosamente consumato in rifugi sopra i duemila metri che odorano di legno e burro fuso. Sono ormai giunto al termine di questa splendida avventura e mi viene in mente una frase di Edgar Allan Poe in cui mi ritrovo totalmente: “Viaggiare è come sognare: la differenza è che non tutti, al risveglio, ricordano qualcosa, mentre ognuno conserva calda la memoria delle meta da cui è tornato”.