E per concludere… amaro, grappa o limoncello?

16 Dic 2024 | News, newsletter

di Fabrizio Gulini

Quante volte abbiamo sentito questa frase, pronunciata dal ristoratore, prima di consegnarci il conto? Purtroppo questi tre prodotti, uno più italiano dell’altro, spesso vere eccellenze di un territorio, sono banalizzati da un’estrema superficialità nel servizio di una ristorazione medio-bassa, ancorata nei cliché anni ’70.
Ma è anche vero che tra le mura domestiche, non c’è un pasto che non termini con questo liquore. Possiamo dirlo, senza mezze parole, siamo dinnanzi a un’icona vintage che non è mai tramontata, spesso maltrattata, ma che ha saputo rinnovarsi nel tempo, sempre al passo con l’evoluzione dei costumi.

Gli amari, come i liquori, nacquero entrambi come rimedi della farmacopea tradizionale   nella Scuola Medica Salernitana. Dove il perfezionamento della distillazione e lo studio delle proprietà mediche delle erbe, si elevarono fino alla necessità di rendere piacevoli gli amari con lo scopo di facilitarne l’assunzione.
Falloppio, agli inizi del 1600, scrisse nel suo trattato medico ‘De secreti diversi et miracolosi’, di aver dolcificato con uva passa e fichi un vino di genziana e assenzio per curare il mal di milza di una persona reticente al consumo della medicina. In quegli anni, nonostante lo zucchero fosse ancora un bene di consumo costoso, appare evidente che la dolcificazione fosse una chiara proposta alternativa per ogni rimedio amaro.
Intorno al 1700 si ebbe una divisione netta fra la liquoristica voluttuaria, composta di dolci ratafià e rosoli, ed i rimedi medici della farmacia, nella quasi totalità amari.
La rapida diffusione della chimica e la realizzazione di prodotti di sintesi per la cura delle persone, fecero diventare obsoleti i rimedi a base di amari. Quindi per evitare che un patrimonio di secoli venisse perso, questi passarono dai libri di farmacia a quelli dei liquoristi, che provvidero a dolcificarli con lo zucchero bianco, divenuto economico e diffuso grazie al chimico prussiano Margraff, che cristallizzò lo zucchero della barbabietola.

Negli anni Trenta gli amari ed i liquori, così come i vermouth, iniziarono a diffondersi in tutto il territorio italiano. Non esiste infatti regione che non ne abbia almeno uno tipico e rappresentativo. L’Italia, con l’unicità del suo territorio, il clima mediterraneo e la vastissima biodiversità, si trovò avvantaggiata nella produzione grazie a un numero elevato di erbe e piante aromatiche, ma è il Centro-Sud Italia a specializzarsi negli amari, mentre il Nord con capocordata il Piemonte, si dedica al successo quasi contemporaneo dei Vermouth. Nacquero amari come il Lucano, l’Averna, il Ciociaro, il Montenegro e l’amaro del Capo. Ma il Nord non stette a guardare, perché sfoderò dalle sue liquorerie lombarde e venete, capolavori iconici come Cynar, Ramazzotti e Fernet-Branca. Oggi solo una piccola parte delle liquorerie presenti in quegli anni hanno resistito ai cambiamenti generazionali e alle inversioni di consumo, anche se dagli anni Duemila, sostenuta dalla moda dei Gin, sembra essere ripartita una nuova attenzione verso la categoria degli amari, complice anche il cambiamento nelle tecniche di miscelazione che vedono un ritorno al classico con una lettura moderna. 

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