di Angelo Petracci
Roberto Cipresso è uno degli enologi italiani più conosciuti nel mondo grazie a importanti collaborazioni italiane ed internazionali.
Il suo percorso professionale è sempre stato caratterizzato da una estrema curiosità e voglia di sperimentare e il risultato di queste sue attitudini sono le etichette de “La quadratura del cerchio”, vini realizzati assemblando i vitigni con caratteristiche complementari, allo scopo di riuscire a definire la migliore carta di identità per equilibrio e struttura. Oggi quei viaggi continuano con il progetto “Cipresso 43”, nato dall’osservazione che la vocazione dei territori non è circoscritta ad un luogo ma si esprime al meglio lungo questo parallelo.
Vini che affascinano per il poderoso retroterra di conoscenze che vengono messe in gioco per realizzarli nella maggiore ricchezza di sfumature possibili.
Ma il lavoro di enologo è troppo piccolo per contenere la sua personalità e così si è cimentato anche nella scrittura di diverse pubblicazioni.
Il suo libro “Il romanzo del vino”, scritto nel 2006, non si rivolge ai lettori in uno scontato nozionismo enologico: emerge la capacità di affabulare ed emozionare il lettore con il racconto dei suoi incontri, dei suoi viaggi, delle nebbie respirate nelle brume mattutine, degli scarponi affondati nel fango dei vigneti, dei vini realizzati dopo anni di lavoro partendo dalle marze di filari abbandonati, dello scintillio delle luci degli eventi di presentazione newyorchesi dove il vino è business, del timore reverenziale che incutono le kermesse parigine, dove invece il vino appare ogni volta come un monumento che rimanda ad un passato di incommensurabile grandezza. Il libro, di cui sono coautori Stefano Milioni e Giovanni Negri, ha la peculiarità di rivelare Roberto come un Giano bifronte, capace cioè di comprendere il valore storico e culturale del vino e allo stesso tempo anche la necessità di traghettarlo nell’immaginario collettivo della società contemporanea, liberandolo dalla gabbia della tradizione ma senza omologarlo e fargli perdere identità. Evitare che la tradizione diventi come per Atlante un fardello pesantissimo da cui non ci si riesce a liberare, che impedisca di studiare e scoprire nuove modalità realizzative e nuovi terroir. Una libertà che Roberto è riuscito a trovare soltanto fuori dall’Europa, dove le buone idee realizzative non si scontrano con i feticci del passato. La tecnologia e l’enologia devono essere adeguate ai vigneti, alle loro altitudini e oggi il riscaldamento globale rende necessario una ricollocazione dei vigneti in quota, dove la viticoltura non è mai stata praticata. Ma se l’enologia dovrà essere ripensata potrà farlo solo l’uomo.
All’interno di una scrittura di grande livello e piacevolezza che caratterizza tutti i capitoli, sono senz’altro centrali i concetti che emergono nel capitolo “Intervallo Samarcanda Camarcanda” (la Terra), dove un ideale viaggio in mongolfiera sopra i grandi terroir mondiali riesce rivelarne la complessità e la genesi della loro riconoscibilità e successo commerciale.
Il terroir non è paesaggio. E’ linguaggio, storia, gesti di trasformazione operati dall’uomo. Se lo si vuole celebrare non va banalizzato con sterili parole riferite solo al sottosuolo, come se non esistesse nessuno sforzo, ma nelle scie di significato che lasciano dietro di loro i gesti dell’uomo ripetuti ogni giorno.