di Sergio Aricò
Se il Cile fosse un libro, lo avrebbero scritto a quattro mani Pablo Neruda e Isabel Allende. Il primo ne avrebbe descritto la geografia folle e smisurata: quella “lunga striscia di terra e di vino e di neve”, stretta tra una “spada fredda” di montagne e il cuore blu del Pacifico. Allende ne avrebbe popolato le valli di spiriti, di storie intrecciate e di un realismo magico capace di trasformare un grappolo d’uva in un’epopea.
Assaggiare un grande vino cileno oggi significa leggere una pagina di questo libro. Significa andare oltre il Cabernet da grande distribuzione per scoprire un racconto liquido, un’ode alla resilienza scritta con l’inchiostro della terra e la calligrafia di viticoltori che assomigliano sempre più a poeti e a “detective selvaggi”.
Tutto, in Cile, inizia con un isolamento quasi mitologico. Immaginate un vigneto protetto da guardiani implacabili: il deserto di Atacama a nord, un silenzio di sale e di stelle; le Ande a est, un muro di ghiaccio e fuoco vulcanico; la distesa infinita del Pacifico a ovest; i ghiacciai della Patagonia a sud. Questo non è solo un confine, è un incantesimo. Un sortilegio che ha sigillato la terra, tenendo lontana la fillossera e consegnandoci viti che affondano le loro radici originali, a “piede franco”, nel terreno.
Un sorso di un vino da queste piante è un contatto diretto con l’anima intatta della vite, un’eco del passato enologico europeo che qui non è mai stato interrotto. È la purezza primordiale, la pagina bianca su cui il terroir può scrivere la sua storia senza filtri. Ogni notte, questo patto si rinnova: il respiro gelido delle Ande scende a valle per incontrare la nebbia salmastra del Pacifico, la camanchaca. Questa danza tra caldo e freddo non è un fenomeno climatico, è il ritmo segreto del Cile, una metrica che dona ai vini un’eleganza vibrante, un equilibrio perfetto tra la maturità del frutto e un’acidità che è pura spina dorsale.
Ogni grande nazione del vino ha il suo colpo di scena, e quello cileno è degno di un romanzo di Allende. Per oltre un secolo, il Carmenere ha vissuto sotto mentite spoglie, mascherato da Merlot, come un esule di Bordeaux dimenticato dalla sua stessa patria. La sua riscoperta, nel 1994, non è stata una semplice correzione ampelografica, ma la restituzione di un’identità.
Assaggiare un grande Carmenere oggi è un’esperienza quasi letteraria. Non è solo il suo colore viola scuro, quasi inchiostro, o il suo profumo di spezie e frutti neri. È la sua texture di velluto, la sua nota leggermente malinconica, quasi affumicata, che parla di esilio e di un trionfale ritorno a casa. È il verso perduto e poi ritrovato della poesia enologica cilena.
Ma il vero romanzo del vino cileno si sta scrivendo ora, lontano dai riflettori, grazie a una generazione di “detective selvaggi”, per citare Roberto Bolaño, che cercano la verità della terra in luoghi impensabili.
Nel nord arido e stellato della Valle di Elqui, la terra natale della poetessa Nobel Gabriela Mistral, alcuni viticoltori visionari coltivano la Syrah in condizioni estreme. Sono vini che sembrano distillati dal cosmo: minerali, quasi salini, con una purezza che sa di roccia, di sole violento e di cieli notturni così limpidi da togliere il fiato. È una poesia austera e potente.Viaggiando verso sud, nelle antiche valli di Itata e Maule, i nuovi vigneron sono come archeologi. Riscoprono vigne centenarie di País e Carignan, vitigni considerati rustici, e le trasformano in vini di un’agilità e di una gioia sorprendenti. Sono vini che raccontano storie di contadini, di tradizioni, di una “fine del mondo” che è in realtà un nuovo inizio. Il movimento VIGNO (Vignadores de Carignan) è il manifesto di questa rivoluzione: la celebrazione orgogliosa di un patrimonio.
Lungo la costa di Leyda e San Antonio, il vento è il protagonista. Un sorso di un Sauvignon Blanc di queste zone è come respirare la stessa aria salmastra che gonfiava le pagine del poeta Neruda nella sua casa di Isla Negra. Sono vini verticali, taglienti come le onde, con un’anima di sale e di agrumi. Il Pinot Noir, invece, trova qui una finezza struggente, un’eleganza che sussurra storie di nebbia e di orizzonti infiniti.
Bere Cile oggi è un atto di scoperta. È accettare l’invito a perdersi in una biblioteca di aromi e racconti. Le grandi aziende continuano a produrre vini di impeccabile qualità, ma la vera magia è nelle piccole cantine, nei “vini d’autore” che stanno scrivendo i capitoli più audaci di questa storia.
Pablo Neruda, nella sua “Ode al Vino”, lo descrisse come una creatura viva, dal colore “del giorno” e della “notte”, dall’esistenza “corale”. Mai descrizione fu più adatta per il Cile di oggi. Un coro di valli, di vitigni e di persone che stanno componendo una sinfonia unica.
Stappate una bottiglia, chiudete gli occhi e ascoltate. Sentirete il sussurro del Pacifico, la maestosità delle Ande e, forse, la voce di un poeta che brinda con voi.