di Paolo Tamagnini
“Quanto alza questo vino?”. Non è un esercizio di fisica, ma una domanda che sovente schiere di aspiranti sommelier formulano al relatore di turno, avidi di cogliere dal livello del titolo alcolometrico dello specifico vino in degustazione chissà quali rivelazioni sui misteri dell’analisi organolettica. Un quesito che, tuttavia, potrebbe rischiare di diventare ozioso, o meglio superato a causa di un nuovo tormentone che si è già affacciato nel mercato enologico: quello dei dealcolati, ovvero dei vini privi di alcol.
Prima di approfondire il tema, vediamo di cosa stiamo parlando: la dealcolazione del vino è una pratica ammessa e regolamentata (reg. UE n. 2117 del 2/12/2021), che autorizza la produzione dei vini, parzialmente o totalmente “dealcolizzati” (titolo alcolometrico effettivo del prodotto non superiore a 0,5% vol.), mediante trattamenti di parziale evaporazione sotto vuoto, o di tecniche a membrana, oppure di distillazione.
Tralasciando gli aspetti tecnico-produttivi, l’elemento interessante di riflessione si coglie da una recente indagine dell’ISWR (International wines and spirits record), istituto londinese esperto in analisi di mercato di settore, secondo la quale i prodotti no/low alcol valgono il 3,5% dei volumi totali di bevande alcoliche consumate nei dieci top market mondiali.
Un recente studio della Commissione Europea evidenzia che il mercato UE dei vini parzialmente o totalmente dealcolati rappresenta oltre 40 milioni di litri per un valore che supera i 320 milioni di euro, con la sotto-tipologia vini spumanti che rappresenta il 70% del totale in termini di volume e di valore. I principali mercati sono nell’ordine la Francia (166 milioni di euro), la Germania, l’Italia (30 milioni di euro) e a seguire la Spagna. Si prevede che il mercato mondiale del vino analcolico guadagnerà una crescita del mercato nel periodo di previsione dal 2021 al 2028, del 6,79% (Data Bridge Market Research), con gli Stati Uniti che si candidano a diventare il vero motore trainante del trend con un +10%.
Ora, se si considera il fatto che nel mondo oltre il 50% della popolazione non consuma bevande alcoliche per motivi religiosi, di salute o semplicemente perché non le include nel proprio regime alimentare senza ragioni specifiche, il business dei dealcolati potrebbe rappresentare un’opportunità da cogliere al volo per molti produttori di vino. Tuttavia c’è anche chi sostiene che il dealcolato non può definirsi vino e che le sue caratteristiche sensoriali non sono propriamente “apprezzabili” o comunque minimamente confrontabili con la versione classica.
È indubbio che si tratti di un prodotto molto artefatto, che pone comunque dei legittimi interrogativi sulla sua identità, ma che potrebbe comunque indurre a delle riflessioni almeno sulla opportunità di produrre vini in generale meno generosi di alcol: una tendenza che la domanda di mercato, spinta anche da esigenze salutistiche, sta già suggerendo.