di Angelo Petracci
Il vino come summa che ad un certo punto della vita esprime il senso estetico di una persona, il suo umanesimo.
È questa la chiave di approccio a “L’invenzione della gioia” di Sandro Sangiorgi.
Non si parla infatti soltanto di vino: vengono presentate poesie, prose di autori anche apparentemente non attinenti quello che Sangiorgi definisce il “liquido odoroso” per riuscire a definire una nuova modalità emotiva di raccontarlo, che superi un copione ormai consunto fatto soltanto di schede tecniche aziendali, descrizioni degli assaggi e ritratti dei vignaioli e territori.
È come se Sandro ci invitasse a cena a casa e in attesa che finisca di spadellare in cucina curiosassimo tra i suoi libri e i suoi dischi.
Il vino tra i prodotti alimentari è quello più civilizzato e questa sua ricchezza necessita di un linguaggio che sappia esprimere tutta la sua sensorialità e l’emozione che suscita. Non è quindi in discussione l’uomo e la sua azione creatrice del vino ma il suo ruolo, che deve essere quello di un custode, senza aggiunte non necessarie.
Non esasperare il vitigno, non definire a tavolino vini banalmente varietali, capaci di riportare stancamente soltanto sempre lo stesso schema. Le contaminazioni migliorative impoveriscono la partecipazione gustativa. Meno definizione in favore di maggiore mistero e fascino. Evitare la deriva edonistica, il concentrarsi soltanto sui profumi e la pulizia, il ridurre il vino alla sola enologia. Il vino vale per il percorso che lo ha portato ad essere imbottigliato, per le scelte che devono emergere dietro ogni sorso.
Il libro è pervaso dall’idea che i vini siano affascinanti per l’etica delle scelte fatte e non per la sola qualità di quello che si beve.
Emerge in sottofondo l’idea che la tecnica e la tecnologia siano corruttrici della natura, del suo ordine ed equilibrio primigenio, che lo slancio artistico sia già nella natura e che serva soltanto accompagnarlo per disvelarlo.
Ma che la Terra abbia una ragione per ogni comportamento è una affermazione non innovativa, è il rifiuto romantico ottocentesco alla scienza newtoniana, e lo stesso Sangiorgi è consapevole che possa apparire museale, dettata da un istinto di reazione alla modernità.
Torna nuovamente la questione dei lieviti selezionati, capaci di produrre profumi netti ma didascalici, senza emozioni. Meglio, molto meglio, una coralità di profumi, magari indistinta, una varietà espressiva che accolga gli esiti che la diversità dei lieviti indigeni propone.
Tesi affascinante ma rimane sempre inevasa però la questione dell’acetaldeide che molti lieviti indigeni producono in grandi quantità, rendendo così necessaria una dose maggiore di anidride solforosa per conservare i vini in bottiglia. La selezione moderna dei lieviti aiuta quindi ad avere meno bisogno della chimica moderna. La modernità di precisione che aiuta ad avere meno bisogno della modernità invasiva.
Un grande progetto editoriale, che ha avuto una gestazione decennale, dove in ogni passaggio si nota che ogni parola è stata lungamente soppesata, scelta con cura da una bibliografica sconfinata.
Si sposta il dito nell’indice, si cerca l’argomento di proprio interesse e si va alla pagina indicata. Ogni capitolo è dotato di suo perimetro autoconsistente. Il fatto che a volte non si possa condividere tutto quello che si legge rappresenta un valore aggiunto. Ogni sua posizione è così ben argomentata che si rimane comunque a pensare.
Non può mancare nella biblioteca di ogni appassionato, magari accanto al testo di Luigi Moio “Il profumo del vino” che invece descrive con altrettanta capacità il fascino dei vini moderni, emendati dai difetti e dalle approssimazioni del passato e di cui parleremo nelle prossime uscite.
Due testi da cui emergono interpretazioni opposte del fascino del vino, che ricordano il confronto letterario tra Pasolini e Calvino, alle prese con l’analisi della modernità, con Calvino che rimproverava Pasolini di rimpiangere l’Italietta provinciale e contadina del passato per mero intellettualismo estetizzante insoddisfatto.