L’unicità di un vino va oltre la firma dell’enologo. Parola di Umberto Trombelli

16 Nov 2017 | Stampa

Un rispetto grande e profondo. In primis il rispetto nei confronti del territorio, di cui ogni vino è figlio ed espressione. Ma non è meno importante il rispetto per l’azienda che lo produce, investendo e rischiando. E’ questo il sentimento che più di ogni altro ci trasmette con le sue parole, quando lo intervistiamo,  Umberto Trombelli, enologo tra i più conosciuti in Italia, già collaboratore di Giacomo Tachis e protagonista della prima serata che Ais Lazio dedica al ciclo di incontri “Ogni vino racconta una biografia”. Quella di Trombelli è, in effetti, una biografia tutta segnata dal legame con il vino. “Mio nonno, di origine bolognese, era un produttore di Lambrusco. Pensai che quella potesse essere anche la mia strada, quando mio padre fu trasferito in Piemonte per lavoro e decisi di frequentare la Scuola Enologica di Alba.

 

E’ vero che il suo percorso professionale è iniziato  con un’esperienza internazionale?

“Finiti gli studi, ho iniziato a gironzolare.  Erano anni in cui si diplomavano molti enotecnici, il Piemonte era un po’ saturo e quindi c’era bisogno di spostarsi. Mi trasferii a Londra, dove ero consulente per l’Istituto del Commercio Estero che aveva  un’enoteca bellissima in Piccadilly. Era un periodo difficile, quello dello scandalo del metanolo. Ciononostante, quell’esperienza mi ha permesso esattamente di vedere come era il mondo del vino nel Regno Unito, che ne è sempre stato pioniere. Nello stesso tempo avevo a disposizione un corredo di vini  che era impressionante. Si vedeva già allora che, nella realtà dei fatti, l’Italia governava un mercato  abbastanza di basso prezzo ma con una versatilità e varietà  che nessun altro al mondo aveva. Una potenzialità che doveva essere espressa e che, però, era fattiva. Questa varietà è stata uno stimolo in più per tornare in Italia. Andai in Toscana, dove iniziai a fare il mio lavoro e ad operare direttamente sul campo, cercando un’azienda per imparare questo mestiere”.

 

Allora avvenne l’incontro con Giacomo Tachis che lo scorso 4 novembre avrebbe compiuto 84 anni. Che ricordo ne ha?

“Quando ci siamo conosciuti, era ancora direttore delle Cantine Antinori ma aveva avuto anche l’autorizzazione a seguire altre aziende in Sardegna, come la cantina di Santadi e di Argiolas. Aveva bisogno di un enologo che andasse a lavorare nella cantina di Santadi. Feci il colloquio ma non accettai perchè non mi sentivo ancora pronto. Ma forse fu proprio questo l’atto che fece si che Tachis mi prendesse sotto le sue ali protettrici: non è facile trovare una persona che riconosca i propri limiti. Questo gli fece pensare che forse ero una persona seria. Diceva che avevo i tratti somatici dell’affidabilità. In quegli anni si divertiva a leggere libri di fisiognomica e, quindi, ogni volta che trovava una persona nuova, gli faceva praticamente il profilo. Era un burlone. Si divertiva ad esprimere questi giudizi”.

 

Qual è il più grande insegnamento che le ha lasciato Tachis?

“Essere un uomo d’azienda! Un enologo non può  limitarsi a lavorare “per” l’azienda e “firmare” il suo vino di punta. Diceva che, per poter fare poi un giorno l’enologo a tutto tondo, bisogna  conoscere anche l’economia aziendale, la gestione dei rapporti con il personale, e, soprattutto, avere una linea comune di intenti con tutti coloro che lavorano alla produzione”.

 

E poi c’è l’insegnamento del rispetto per il territorio…

“Certo! Al di là della capacità dei nostri vitigni autoctoni di prevalere, è necessario che i vini esprimano il territorio. Giacomo Tachis lo ha fatto. Molti lo criticano ancora perchè dicono che è quello che ha portato il Cabernet e il Merlot dappertutto. In realtà  io riconosco che Tachis ha valorizzato il Bolgheri, il Chianti Classico, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino. Pensiamo a Guerrieri Gonzaga… Oppure alle Marche con Umani Ronchi, a Il Pollenza. Se l’Italia vuole vendere i propri vini a dei prezzi più elevati e rendere loro merito, lo può fare solamente se, con essi, valorizza il patrimonio culturale e gastronomico, che sono unici”.

 

Lei si sente l’erede di Tachis o esiste  “una filosofia del vino di Umberto Trombelli”?

“Resterò sempre legato  a Giacomo Tachis e gli sono riconoscente per quello che mi ha insegnato ma oggi seguo la mia strada, non mi sento suo erede. La mia filosofia? Non essere l’enologo che firma  vini tutti uguali. Che lavori per aziende del Nord o per aziende del Sud Italia o delle Isole, i  vini non devono essere accomunati. Devono essere diversi, devono esprimere la personalità delle aziende e non  quella dell’enologo. Sarebbe troppo facile globalizzare tutto ed eliminare le differenze..Vorrebbe dire sbugiardare la teoria della valorizzazione del territorio. E’ importante avere una cura maniacale nel differenziare tutto quello che un vigneto può dare. Ogni singola unità produttiva deve essere vinificata separatamente, che sia un vigneto o una parcella di esso, per capirne le potenzialità e gestire così dopo tutti i vari blend”.

 

Eppure oggi è diffusa la convinzione che sia l’enologo a fare il vino…

“E’ vero che l’enologo inizia a lavorare nei vigneti, si confronta con l’agronomo, studia le varie politiche di gestione dei vigneti, assaggia l’uva, decide come vinificarla in base alla sua degustazione, però è anche vero che poi il vino è dell’azienda. Nel senso che, se l’enologo riesce a rendere unici i vini di quell’azienda, è perchè quei vini sono ottenuti da uve di quei particolari vigneti che sono unici. L’enologo deve riuscire a spersonalizzarsi. Bisogna avere rispetto per chi rischia e investe. Non ci sarebbe comunque mercato se non fosse così. Non si può pretendere di fare i grandi con i soldi degli altri”.

 

A quale dei “suoi” vini è più affezionato?

“Sono molto affezionato ai vini delle Marche perchè con Giacomo Tachis iniziai subito con Umani Ronchi. Ho vissuto 13 anni bellissimi con la mia famiglia in quella Regione. Sono oltremodo affezionato ai vini della Sardegna perchè lì ho potuto lavorare per 9 anni sostituendo Tachis, prendendomi quindi una grossa responsabilità. Quei vini sono forse l’emblema migliore di quello che Giacomo Tachis ed Émile Peynaud scrivevano  quando dicevano che, per rendere grande un vino rosso, bisogna cercare la souplesse, ovvero quell’equilibrio che rende comunque grande un vino e che gli permette di essere sempre moderno e sempre aggiornato. Sono legato anche a tutte quelle realtà dove mi sono trovato a lavorare e ad avere sotto mano uve uniche. Potrei ricordare, ad esempio, alcuni vitigni autoctoni della Calabria, nella zona del Melissa DOC, in provincia di Crotone, vicino a Cirò, con vitigni come il Magliocco e il Gaglioppo. Oppure il Raboso in Veneto, l’Incrocio Manzoni in Veneto  con il Castel di Roncade.  Sono ricchezze uniche da valorizzare. Il problema è che siamo partiti troppo tardi”.

 

In che senso siamo partiti troppo tardi?

“Dobbiamo scommettere sui vitigni autoctoni ma dobbiamo anche fare in modo che vengano selezionati.  Vitigni internazionali come Merlot e Cabernet hanno avuto tanto successo nel mondo perchè i Francesi hanno iniziato 2 secoli prima di noi a vendere vino e hanno incominciato a selezionare le loro viti di Merlot e Cabernet in modo che  si potessero adattare a tutti i territori e fossero in grado di dare produzioni di grandissima qualità. Non per niente il Sangiovese comincia a dare grandi frutti qualitativi oggi perchè, dopo 40 anni, la selezione clonale ha fatto si che ci siano alcuni cloni di Sangiovese che danno veramente risultati qualitativi attendibili. Noi possiamo scommettere sui nostri vitigni ma dobbiamo iniziare a fare un lavoro di selezione clonale sugli autoctoni. Ci arriveremo, ci vorranno forse 50 anni ma sicuramente va fatto. Non si può poi dire oggi partiamo e valorizziamo i nostri vitigni autoctoni se prima non li abbiamo selezionati.  Saper aspettare e saper selezionare: è il mio auspicio per il futuro del vino italiano”.

 

Ci dia qualche anticipazione sulla degustazione organizzata con AIS Lazio il 16 novembre.

“Abbiamo cercato di organizzarne una che fosse più completa possibile, spaziando dal Nord al Sud Italia per far capire alcuni aspetti ai degustatori. In primis tutti i vini esprimono un qualcosa della singola azienda che li produce. Sono tutti diversi l’uno dall’altro, anche lo stesso vino a Denominazione di Origine Controllata e Garantita prodotta da 2 aziende nello stesso territorio a Montepulciano sono completamente diversi. Vorrei far capire anche che l’uso dei vitigni internazionali può rientrare con pieno merito nell’assemblaggio di vini importanti purchè siano sempre e comunque espressione di un territorio. Sarà una degustazione molto complessa, completa e spero che possa essere apprezzata”.

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